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Donne e Sport: Difficoltà e Opportunità

Un Giorno

Forse

Oggi


Non è facile scrivere un pezzo su un argomento di questo genere senza cadere nella banalità delle cose che si dicono e leggono in continuazione. Dopotutto, negli ultimi anni, si è cercato di cavalcare l’onda delle pari opportunità anche per sollevare i movimenti sportivi - femminili. Italiani e non. Perché sarebbe ipocrita dire che “solo” in Italia, lo sport al femminile è…poco riconosciuto.

Inutile anche essere finti buonisti, o vivere nell’utopia che un giorno tutto questo cambierà: restiamo, per il tempo di questo articolo, semplicemente ancorati a quello che è: un sogno difficile, ma più possibile rispetto al passato.


Avevo 12 anni la prima volta che espressi, su un foglio di carta, il mio sogno più grande: diventare una giocatrice di basket professionista. Lo scrissi in un tema a scuola, in quell’età quando ancora i professori ti lasciano credere che sei libero di diventare ciò che vuoi, senza porre un limite alla tua immaginazione. Senza calcolare gli ostacoli, le buche, le risatine. Avevo 12 anni, e forse non sapevo esattamente cosa stessi sognando. Ma lo sognavo, forte. Almeno fino a quando la professoressa, leggendo le mie parole, non scoppiò in una grossa risata, che ancora adesso risuona ampiamente nella mia mente.


Avevo 20 anni quando m’iscrissi alla facoltà di Lettere e Filosofia di Padova. Mi barcamenavo tra trasferte d’Eurolega, partite del campionato di A1, e qualche mattina libera in cui prendevo la macchina e mi fiondavo all’università per assistere alle lezioni. Poche, lo ammetto, ma quello che avevo scelto mi piaceva, e Platone aveva un potere rilassante su di me. Diedi il primo esame: 28. Prendo e metto in tasca. Finisce il campionato, inizia la sessione d’esami estiva. Solo che le mie estati non erano quelle spese in spiaggia coi piedi sepolti nella sabbia: riempivo la valigia e andavo in Nazionale. Però qualche esame volevo comunque darlo. Prendo la mail della professoressa, le spiego la mia situazione sportiva di atleta della Nazionale, e le chiedo gentilmente se può inoltrarmi il materiale. Risposta negativa: arrangiati, detto in parole più accademiche. Ok. Qualche buon’anima e amica in facoltà ce l’avevo: mi girano tutti gli appunti e mi danno le dritte sui temi affrontati durante le lezioni. Arriva luglio e mi presento per dare l’esame, dopo aver finito un mese e mezzo di raduno e viaggiato per mezza Europa per partite varie. La prof chiama il mio nome, mi presento alla scrivania, e mi dice: “Ah tu sei la giocatrice?”. Mi fa la prima domanda, su un qualcosa di cui non avevo il minimo ricordo, neanche vago. Cerco gli occhi della mia compagna di studi tra i banchi, la guardo e noto stupore: anche lei non aveva idea di che cosa mi avesse chiesto. La prof non perde neanche tempo a farmi una seconda domanda, mi dice semplicemente “Torna la prossima volta”.


Non misi più piede all’università.


Le cose, rispetto a 13 anni fa, sono per fortuna leggermente cambiate, e la professione d’atleta è -quanto meno- vista. La gente comincia, lentamente, a comprendere che anche le donne hanno il diritto di inseguire i propri sogni, qualsiasi essi siano, anche se questi sono sogni sportivi. La donna sta prendendo sempre più spazio nel mondo, e i suoi confini non sono più solo e unicamente quelli della propria casa. Però di strada, davanti, ce n’è ancora molta da fare: i salari sono uno scherzo se messi a confronto con molti di quelli degli colleghi maschi; dobbiamo costantemente vivere il paragone uomo-donna, come se -tra l’altro- fosse una cosa costruttiva e necessaria, ma soprattutto dobbiamo sempre rispondere alle solite domande sullo sport femminile: perché le stesse domande non le ponete anche ai ragazzi?

Ho sempre creduto che la bellezza delle cose stia proprio nella differenza, e che ogni genere nasconda una magia che non puoi trovare nell’altro. È questione fisiologica: il corpo maschile è diverso da quello femminile, come la mente e i modi di vivere le prestazioni sono spesso opposti. C’è uno schema diverso che costituisce il ragionare “uomo” e il ragionare “donna”, e se tu vai a vedere uno sport femminile pensando di trovarti davanti lo stesso spettacolo del maschile, allora a sbagliare sei tu. E devi esserne cosciente.

Eppure, spesso e purtroppo, i commenti sessisti non tardano ad arrivare. Commenti a volte anche cattivi, fuori luogo, non contestualizzati.


Allo stesso tempo, credo sia altrettanto corretto che noi donne, una volta per tutte, prendessimo il coraggio di guardarci allo specchio e decidere cosa vogliamo essere. Per cosa vogliamo lottare. Cosa siamo disposte a rischiare. Ma soprattutto, quanto siamo disposte a sostenerci. Che non vuol per forza dire essere d’accordo su tutto: si possono avere idee diverse, e questo fa crescere. Ma, piuttosto, avere una visione e obiettivo comune.

Viviamo un’epoca che, per le atlete, è terreno fertile di opportunità da poter cogliere e creare, per renderci finalmente protagoniste del nostro destino.


Non necessitiamo più di un giornale.

Non necessitiamo più di una televisione.

Non necessitiamo più di un’occasione per mostrarci.


Ora come ora il palcoscenico che abbiamo è infinito, ed è tempo di provare a buttarsi: ognuno coi suoi mezzi e con le sue possibilità, ma con il coraggio di farsi conoscere per ciò che si è e quello che si fa.

Spesso aspettiamo che siano gli altri a fare le cose per noi, che sia -magari- l’uomo a darci una mano. E magari lo farà. Ma, forse sarò cinica, penso sia sempre meglio provarci senza aspettarsi nulla, e a volte per farlo bisogna uscire dalla propria zona di comfort. Non ci sarà mai un grande cambiamento senza un sterzata, senza una visione, senza l’unione di chi prova a fare qualcosa per il bene comune.


Non sono un'amante di chi copia gli altri, ma amo invece coloro che hanno dei modelli e li studiano per capire come loro ce l'hanno fatta. Ci sono realtà femminili che hanno reso il loro ambiente sportivo decisamente migliore di com’era prima: basta buttare lo sguardo al nostro calcio femminile, e studiare quello che hanno fatto qualche anno fa. Basta guardare la WNBA, e comprendere come negli ultimi anni abbia preso una piega decisamente diversa, con un ritorno monetario e di pubblico esponenzialmente migliore. E questi sono solo due esempi di come un denominatore comune come l’unità, possa avere un impatto molto più importante di quello che si possa immaginare.



Lo sport al femminile, secondo me, è un’infinità dove solo pochi ancora ci hanno messo piede. Ci sono possibilità ovunque, spazi per costruire, per inventare, per sognare in grande. Ed è questo che vorrei dire alle giovani di adesso: cazzo, vivete forte questo momento e vivetelo assieme.

Provateci a lasciare il vostro sport, qualsiasi esso sia, un posto migliore di quello che avete trovato.

Tappatevi le orecchie davanti ai pregiudizi, e concentratevi solo sulla vostra passione.

Non lo so se questo vi porterà da qualche parte, ma so che ,in ogni caso, varrà la pena provarci.

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